Cuba, Vietnam, Cina: è tornata la NEP

Spesso si sente affermare che il comunismo nel mondo è morto e sepolto. E, quando taluno prova sommessamente a dire: “Ma guarda che in Cina, in Vietnam, a Cuba…” costui viene stizzosamente liquidato con frasi del tipo: “ Quelli sono ormai paesi capitalisti, solo che manca loro quella libertà che abbiamo noi”. Il bello (o il brutto) è che, simili risposte, che si sono fatte senso comune, provengono sia dalle destre come dalle pallide sinistre riformiste e no che, le une e le altre, hanno fatto propri gli argomenti cari da sempre ai Troskisti. La verità è che nessuno più studia, conosce, approfondisce, pur nell’era di Internet: siamo alla superficialità, se non all’ignoranza, informata.

Ma c’è una seconda verità occultata in questo riscontro: per le destre, come è ovvio, e per le sinistre, come non dovrebbe esserlo (ovvio), insomma per tutti i becchini del comunismo, questo in cui viviamo, in Italia ad esempio, è il migliore dei mondi possibile in cui, al massimo, le sinistre possono alzare la voce, ma sul web, rivendicando diritti o esercitandosi nella retorica dei beni comuni. Ed è per questa ragione di fondo  – non c’è nessuna società da trasformare radicalmente – che, in Occidente, bisogna ora nascondere ora disinformare sui processi reali di trasformazione in corso attualmente nel pianeta che, fossero conosciuti, ci direbbero che un altro mondo è per davvero possibile, anzi è in costruzione, con i caratteri del socialismo. Intendendo per socialismo la fase di transizione dalla forma capitalistica a quella comunistica. Concetto valido anche quando la forma capitalistica è anticipata dalla oppressione coloniale e dalla lotta di liberazione successiva.

Cina, Vietnam, Cuba sono oggi i paesi e i popoli calati dentro quei processi di transizione e, ognuno con le proprie peculiarità, cercano, da un lato, di non ripetere gli errori che hanno portato non alla sconfitta del comunismo, quanto a quella della forma assunta in Unione Sovietica con il cosidetto “Socialismo Realizzato”, e cercano, dall’altro lato, di riscoprire e riattualizzare quegli interventi che, negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, si resero necessari per salvare la Rivoluzione stessa. Quegli interventi, racchiusi allora nel progetto di “Nuova Politica Economica”, la NEP, sono, almeno nell’opinione di chi scrive, la linea di condotta di quanti oggi stanno costruendo il Socialismo. Ognuno con la sua NEP.

Ma cosa fu la NEP in quel 1921 in cui decolla? Fu l’insieme di idee e di azioni concrete con cui si cercò di uscire dai problemi immensi che l’immensa Russia si trovò ad affrontare dopo la guerra, dopo l’Ottobre e dopo la Guerra Civile per far affermare la rivoluzione: la carestia; masse sterminate di profughi e orfani in movimento; l’irrisolto della questione fondamentale dei contadini, che erano l’enorme maggioranza del popolo mentre i proletari industriali erano la minoranza; gli scioperi degli operai, come a Pietrogrado, o le rivolte dei soldati come nella fortezza marittima di Kronstadt; l’accerchiamento pesante dei paesi del capitale. Era quella la crisi che poteva trascinare con sé anche la crisi della Rivoluzione. La NEP, in prima lettura semplificata, fu la liberalizzazione del piccolo commercio privato – “Si facciano circolare le merci” – il lancio della cooperazione, l’avvio di un sistema di economia mista (in cui però si fece largo il “NEPMAN”, ambigua figura di capitalista che si muoveva in una economia controllata dai comunisti). Ma la NEP fu molto di più. Fu una revisione profonda, soprattutto teorica, in quanto si andò ad affermare, e fu una svolta, che al socialismo, anche dopo la presa armata del potere, ci si arriva attraverso la transizione, ed è un percorso lento. Disse Lenin a tal proposito: “Bisogna armarsi di salutare diffidenza verso ogni progresso troppo rapido, verso qualsiasi millanteria… la cosa più nociva è la fretta” (V.I. Lenin, Opere Complete, v 33 p446). Sempre a tal proposito commenta Boffa: “Sono formulazioni che lasciano intravedere come quello che, nelle categorie gramsciane, era il passaggio dalla “Guerra di Movimento” alla “Guerra di Posizione”, si fosse delineato nel pensiero di Lenin non solo per le lotte internazionali ma anche per l’evoluzione interna del Paese” (Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, 1917-1941, p 239).

Ma quella non fu una revisione semplice. Anche tra i bolscevichi circolava infatti l’idea che la NEP fosse una resa, così come tra gli avversari della Rivoluzione fosse l’ammissione del fallimento della stessa. Fu l’esito di una battaglia politica serrata. In ogni caso, con la NEP, si spensero i focolai di ribellione e si provò la prima forma di alleanza tra gli operai e i contadini, quella da cui dipendeva il destino stesso del potere comunista in Russia. Fu, in sintesi, la prima attuazione di una politica di pace, non militare, che la Rivoluzione fosse in grado di applicare.

Ma la NEP si spegne già nel 1928, anche se Stalin continuerà a parlarne sino al 1936. Perché è dal ’28 che crollano – vengono fatte crollare – le attività private  straniere e no, vengono aboliti quei contratti che consentivano di dare in affitto le imprese, il piccolo commercio non viene a sparire ma si immerge nella clandestinità e quel famoso Nepman viene messo sullo stesso piano dei Kulaki, con quel che ne seguì. In compenso si vara il primo piano quinquennale, si aprono grandi cantieri dell’industria pesante. La transizione della NEP è bloccata. Ritorna il comunismo di guerra. E la guerra si avvicina davvero. Si parla di errori dell’Unione Sovietica, il più grave (forse) è stato proprio quello di non aver recuperato nel dopoguerra – taluno ci provò – il percorso interrotto della transizione, non aver riproposto una nuova NEP. Poi, e si dimentica, ci sono i grandi meriti dell’URSS: aver sconfitto il nazifascismo con un prezzo di vite umane impressionante; l’aver concretamente sostenuto tutti i popoli (con il sacrificio del proprio) che si battevano per sollevare il tallone di ferro del colonialismo; aver fornito sponda alle lotte dei lavoratori dell’Occidente ai quali, proprio perché esisteva l’URSS, la borghesia doveva fare (limitate) concessioni che, oggi, proprio perché non c’è più a Oriente un forte competitore politico, vengono tutte ritornate (e, in Italia, si ritornano con gli interessi).

Chi guarda oggi alla NEP e tipicizza la propria transizione al socialismo secondo la storia, le condizioni, i caratteri del proprio popolo sono appunto i comunisti cinesi, cubani, vietnamiti e, per altri aspetti che andrebbero indagati, sono le primavere latino-americane dove si costruiscono aree di mercato non capitalistico. Insomma nel mondo si sono aperti, con buona pace degli Stati Uniti d’America e dei becchini del comunismo di casa nostra, i laboratori della multipolarità che stanno costruendo, avvicinando, il socialismo. E due miliardi di persone sono in cammino su questa strada.

Il Vietnam, ad esempio, apre il suo di laboratorio ma solo nel 1991. Perché prima il popolo, già stremato dalla Guerra di Liberazione che termina nel 1975 con la cacciata degli americani da Saigon, deve riprendere le armi con la Cambogia. Al termine delle operazioni militari l’economia del paese è devastata, il suo tasso di crescita è il più basso rispetto agli altri paesi asiatici. Poi la svolta, l’apertura ai capitali stranieri che accorrono non solo per il basso costo della mano d’opera ma per la stabilità politica raggiunta da un paese diretto con lungimiranza dal Partito Comunista che, appunto, marcia con successo sulla strada della sua “nuova Politica Economica”.

Della grande Cina si scrive molto, più a sproposito che a proposito. Qui ci preme solo sottolineare come la Cina fosse diventato, alla fine degli anni Quaranta, il paese più povero del mondo per le aggressioni e le annessioni predatorie dell’Occidente. Ed è questa la condizione che trovano i comunisti nel 1949 quando, sconfitti i nazionalisti, prendono il potere.

Oggi la Cina è la seconda economia del pianeta. Si è realizzato il più grande balzo economico mai visto nella storia stessa dell’umanità.

La svolta, la NEP cinese, viene lanciata da Deng Xiao Ping nel 1979 con un insieme di provvedimenti – il “Socialismo di mercato” – che rispondevano a una parola d’ordine: “Prima riempire i granai, poi pensare alle formule”. Si avviano così le “Quattro Modernizzazioni” che reggono su uno scambio: “Tu Occidente vieni a investire in Cina e portaci conoscenze. Io, Cina, ti agevolo, ti metto a disposizione la mia mano d’opera a basso costo, così dò da mangiare al mio popolo e, nel frattempo, accumolo sapere”. Il risultato della NEP cinese è oggi sotto gli occhi di tutti, anche se molti guardano solo al Dalai Lama e ad alcuni blogger dissidenti (ben curiosi questi dissidenti cinesi che possono parlare, scrivere, farsi intervistare!). In ogni caso è il Partito Comunista Cinese che, oggi, cosciente delle contraddizioni insite in una corsa al benessere troppo accelerata, invita a considerare la Cina ancora come “Paese in via di sviluppo, tuttora collocato nella fase primordiale del socialismo” (dal dispositivo finale del XVII Congresso del PCC).

Più interessante, e meno nota, è la svolta che viene oggi impressa all’economia cubana. Cuba è un paese unico al mondo: non esiste altro paese che abbia resistito all’assedio posto dagli USA, che è il più lungo mai posto nella storia moderna. Cuba ha resistito al “bloque” come ai cinque uragani devastanti che hanno spazzato l’isola negli ultimi dieci anni, come ha resistito al terrorismo che ha assassinato 4000 cittadini cubani. Cuba ha soprattutto saputo resistere, con il “Periodo Special”, quando, più o meno venti anni fa, l’Unione Sovietica, che allora andava dissolvendosi, ha interrotto improvvisamente il rapporto commerciale esclusivo che aveva con l’Avana. Cuba, dall’URSS, importava merci ma anche i limiti, e lo sapeva, tant’è che solo qualche anno prima, nel 1986, aveva avviato la campagna della “Rettifica degli Errori” con cui si proponeva di ridurre gli apparati burocratici e di decentrare poteri ai territori. Il “Periodo Special”, però, rallenta quel processo che, solo oggi, viene robustamente rilanciato con il 6° Congresso dell’ Aprile 2011, ricorrenza del 50° anniversario della vittoria di Playa Giron, in cui si varano una serie di riforme tese a salvare l’economia e la rivoluzione. E’ la NEP cubana, un progetto le cui linee guida sono state discusse da ben 9 milioni di cittadini su 11 milioni, dove si combinano elementi fondamentali di socialismo con elementi di capitalismo. E’ il Partito Comunista che controlla le “Alture Strategiche” – le chiavi dell’economia, dell’impresa pubblica o privata, cubana o straniera – nell’obbiettivo dello sviluppo economico. E quelle riforme, annunciate e poi raffreddate dal “Periodo Speciale”, vengono riprese, riconoscendo che non tutti i limiti sono imputabili al blocco: bisogna quindi dar forza alla piccola impresa e all’artigianato, bisogna ridurre il peso dell’enorme apparato statale improduttivo, bisogna attrarre (come Vietnam e Cina) investimenti esteri. E il cammino verso il socialismo prosegue con questo cambio di velocità e di impianto.

Che sintesi si può trarre dal nostro Osservatorio se si guarda con pari onestà sia a questi laboratori (e non ho affrontato quelli latino-americani) che alla situazione dell’Italia e dell’Europa? Che mentre in Italia, in Europa e altrove, siamo dentro una fase di declino del capitalismo storico (che può sempre rivitalizzarsi), in altre parti del pianeta si sta ridefinendo un nuovo baricentro dell’economia e costruendo una società di mercato non capitalistico. La sfida persa dall’Unione Sovietica riprende su un altro terreno. Avrà successo questa sfida? Può averlo se, alla lotta dei popoli che si battono per il proprio benessere sulla strada del socialismo, si accompagna la lotta per inserire elementi di socialismo nei paesi dove domina il capitalismo. Dopo la Liberazione ci provarono il PCI e Togliatti, per il quale il perno di una transizione socialista dell’Italia era la Costituzione Repubblicana. Vi riprovò Berlinguer, ma fu sconfitto dal governismo migliorista del suo stesso partito. Riprendere questi temi non è il supplizio di Sisifo ma il nostro compito.

Bruno Casati

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