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Il voto «utile» e le finte verità
di Alberto Burgio
Il faccione di Pierluigi Bersani si sporge da un manifesto elettorale. «L’Italia giusta dove la politica dice la verità», recita lo slogan. Lo sguardo fiducioso del leader mira a rinsaldare la promessa. Le mani giunte evocano prudentemente un’aura mistica. Il sorriso del buon padre di famiglia rassicura e conforta. Ma lascia trapelare anche un sottinteso beffardo. La «verità»? I suoi rapporti con la politica sono, da sempre, difficili e sarebbe prudente non sbilanciarsi sul punto. Dire la verità non è agevole quando si tratta di tattiche complesse in un ambito altamente aleatorio. Bersani chiede i voti degli elettori di Rivoluzione civile ma li considera di serie B quando etichetta la lista Ingroia come populismo di sinistra rifiutando ogni richiesta di confronto. E poi si sa, non tutto è pubblicamente confessabile.
Qualche bugia anche il segretario democratico deve pur raccontarla. Per esempio – per stare a questa stagione elettorale – a proposito dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un giorno ha promesso che lo riporterà allo status quo ante la sua manomissione ad opera del governo Monti, il giorno dopo ha annunciato che invece lo lascerà così com’è. O sulla guerra in Mali, prontamente sostenuta dal governo Monti. Come al solito, Bersani va alla guerra spacciandola per un intervento di polizia internazionale contro il «terrorismo». Ha riprovato pure con la solita storia – vecchia e un po’ indecente – del cosiddetto voto utile. Perché è una bugia anche questa? O meglio, una frode bell’e buona, a danno di una parte di quell’elettorato al quale si dispensano sorrisi a buon mercato? Vediamo.
Com’è noto, il porcellum premia le coalizioni, non solo attribuendo a quella vincente un cospicuo premio di maggioranza (che, nel caso della camera, vale il suo pieno controllo), ma anche dimezzando per le forze coalizzate le soglie di sbarramento. Le coalizioni si formano – in linea di principio – su basi politiche: affinità programmatiche e condivisione di obbiettivi tattici o strategici. Per questo, tra centrosinistra e Rivoluzione civile non si è stretto alcun accordo. Il Pd, azionista di maggioranza del centrosinistra, è stato, insieme al Pdl del nemico Berlusconi, un pilastro del governo «tecnico», e orgogliosamente si proclama guardiano del «rigore» e dell’europeismo. Rivoluzione civile nasce all’insegna della più radicale critica a Monti e al neoliberismo, e vede in quel rigore il fulcro di politiche ingiuste che stanno distruggendo l’economia nazionale. Del resto, a sancire una distanza incolmabile, l’on. Bersani non ha ritenuto nemmeno di rispondere, per declinarlo, al ripetuto invito al confronto rivoltogli da Antonio Ingroia. Si è limitato a bollarne il mittente come «populista di sinistra», tanto per stare al bon ton.
Sin qui, comunque, nulla da eccepire. La lotta politica non è un minuetto, tanto più in campagna elettorale. Qualche rudezza ci sta. Senonché adesso il segretario democratico chiede all’elettorato di Rivoluzione civile di votare per il centrosinistra, nel nome del voto utile. Che significa? E perché questo è, non soltanto un raggiro – una frode, appunto -, ma anche un insulto e un gesto di disprezzo? Bersani dice che è solo matematica: ogni voto sottratto al centrosinistra equivale, nella somma algebrica, a un voto dato al fronte avverso del centrodestra. Questa sarebbe la «verità». Ma è davvero un modo curioso di interpretarla e raccontarla. Senza considerare le implicazioni che tale argomento porta tacitamente con sé.
Intanto, all’elettorato di sinistra, al quale si chiede il voto in ragione della logica frontista, ci si guarda bene dallo spiegare che cosa questo schema suppone. Ci si guarda bene dal dirgli che lo si considera soltanto una forza di complemento, un contenitore di voti, un numero: insomma, un elettorato di serie B, figlio di un dio minore, le cui idee e aspirazioni contano un bel niente. A questo elettorato stanno a cuore cose che il Partito democratico considera irrealizzabili o sbagliate. Il Pd definisce chimere o pure e semplici sciocchezze gli obiettivi elencati nel programma di Rivoluzione civile, e in questi termini si appresta a trattarli domani, quando le urne si saranno chiuse e i giochi saranno stati fatti. Oggi però si fa finta di nulla. Ci si rivolge ammiccanti agli elettori di sinistra, richiamandoli all’esigenza prioritaria di «battere la destra». E le loro convinzioni? Le loro speranze? I loro valori? Valgono meno del due di coppe quando la briscola è bastoni. L’importante è che adesso i loro voti contribuiscano alla vittoria del centrosinistra. Poi chi si è visto si è visto.
Non è questa l’unica astuzia che fa torto alla sincerità sbandierata dal capo del Pd. Anche la storia del pericolo della destra è una discreta presa in giro. Quale destra? Va bene Santoro, va bene la tempra del gran combattente, ma che Berlusconi possa risalire la china e minacciare la vittoria del centrosinistra è palesemente inverosimile. Non siamo più nel 2008, quando Walter Veltroni, inciuciando con il Cavaliere, prima determinò a freddo la caduta di Prodi e la fine anticipata della legislatura (tanto per ricordare chi «responsabilmente» riconsegnò l’Italia alla destra per i peggiori anni della storia repubblicana), poi chiamò tutti a raccolta contro Berlusconi proclamando la vocazione maggioritaria del neonato Pd. Allora qual è oggi il pericolo mortale contro cui si suonano a morto le campane del voto utile? È, meno drammaticamente (e assai meno nobilmente), il rischio che il centrosinistra non conquisti la maggioranza anche al senato e debba quindi andare a patti con un’altra coalizione. La quale però non sarebbe di certo quella capeggiata dal Pdl, bensì l’insieme delle forze centriste raccoltesi intorno all’attuale presidente del consiglio, sino a ieri portato sugli scudi dal Pd, difeso come un eroe nazionale, tenuto in caldo come probabile successore di Napolitano al Quirinale. Forse anche questo il sincero Bersani dovrebbe rispettosamente spiegare alle donne e agli uomini di sinistra di questo paese. I voti dei quali chiede come se fossimo in guerra contro i barbari invasori e vorrebbe invece, senza troppo pudore, incassare per la maggioranza assoluta del proprio partito.
C’è un’ultima questione che merita di essere discussa in relazione alla campagna per il voto utile che, non ne dubitiamo, infurierà senza ritegno sino al 24 febbraio. Qui non si tratta di verità o di bugie, ma “solo” di decenza e di dignità della politica. Ma insomma, è possibile che puntualmente, alla resa dei conti, si ricorra a un argomento che invece di incentrarsi su ciò che si è, si dice e si intende realizzare, fa leva sull’immagine del presunto nemico, su ciò che egli direbbe e minaccerebbe di fare? Sembra che – vagamente consapevoli della propria inconsistenza – i protagonisti della scena politica sappiano dire soltanto, con il poeta, «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». E non si racconti che è un caso se anche questa volta ci si affida a questa nobile arma. È tutt’altro che un caso, per il semplice fatto che scopo fondamentale del bipolarismo, caro al Pd quanto al Pdl, è proprio costringere alcuni elettori (proprio quelli – guarda caso – delle «ali» che il professor Monti oggi, come Massimo D’Alema ieri, desidererebbe tagliare) a rassegnarsi a scegliere il male minore. Che cosa questo significhi in tema di democrazia, quali conseguenze comporti sul terreno della rappresentanza, non è difficile intuirlo. Giacché si intende che con questo sistema molti parlamentari non rappresenteranno affatto gli interessi dei propri elettori, ma tutt’al più le loro paure, indotte ad arte dalla propaganda.
Come si diceva, la politica non è un ballo grazioso. Somiglia piuttosto alla guerra, con la quale è, del resto, strettamente imparentata. Non c’è dunque di che scandalizzarsi se nella contesa elettorale si imbracciano armi improprie o si truccano le carte. Se si agitano spettri improbabili, pur di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e poter poi governare senza l’intralcio delle opposizioni. Certo, sarebbe bello se – invece di inondare gli elettori di appelli a «fare fronte» contro un nemico con il quale si ha molto in comune – ciascun partito combattesse a viso aperto nel nome delle proprie idee e dei propri valori, dicendo lealmente come vorrebbe che la società si trasformasse. Ma questo, soprattutto in un paese come il nostro, farebbe saltare in aria la gabbia del bipolarismo, che non per caso piace tanto a entrambi i capi delle coalizioni maggiori. Sì, perché la verità, questa davvero inconfessabile, è che, di là dalle crociate contro avversari dipinti ad hoc come l’incarnazione del demonio, il bipolarismo funziona alla grande nel garantire la «governabilità» proprio perché permette di sterilizzare il parlamento escludendone le sole voci dissonanti. Non sarà propriamente un dispositivo democratico, ma – su questo non ci piove – è utile. Senz’altro molto utile.
(da Il Manifesto – 24.01.13)