Una lettura in chiave europea dello scenario italiano aiuta meglio a comprendere la nostra situazione e le cause che l’hanno determinata. La crisi delle socialdemocrazie è infatti un fenomeno che attraversa tutto il continente e rivela caratteri di irreversibilità. La sinistra deve essere dunque ricostruita: partendo dall’“eguaglianza”.
di Alfonso Gianni
Marc Lazar è tornato recentemente a riflettere sulle sorti della sinistra italiana dopo il non esito elettorale dello scorso febbraio. “Questa drammatica situazione costituisce certo una specificità italiana, ma al tempo stesso rispecchia le turbolenze che scuotono tutta la sinistra europea” ha scritto lo studioso francese. La sua lettura si distingue quindi da quelle che vedono prevalentemente nelle scelte successive al voto un sorta di tradimento da parte delle forze politiche di destra e di sinistra della volontà degli elettori del nostro paese che sarebbe stata perpetrata attraverso la costruzione di una Grosse Koalition in salsa italica o, se si preferisce, dato il carattere non necessitato della medesima, di un oversizegovernment. In effetti una lettura in chiave europea dello scenario italiano aiuta meglio a comprendere la nostra situazione e le cause che l’hanno determinata.
“In Francia, François Hollande ha battuto molti record di impopolarità – ha osservato Lazar –; la sua maggioranza si sta lacerando e le critiche dei settori più a sinistra si fanno più incalzanti. In Gran Bretagna il Labour è sempre in quarantena; in Germania almeno per ora la Spd non sembra in grado di colmare il suo distacco da Angela Merkel”. Né sembra volerlo effettivamente fare, si potrebbe aggiungere, visto le caratteristiche assai moderate del candidato scelto per contrapporlo alla cancelliera di ferro e il fatto che il nuovo segretario della Spd, Gabriel, propone di cambiare volto e nome alla stessa Internazionale socialista in un’ indistinta Alleanza dei progressisti.
Si domanda quindi Lazar: “la sinistra è condannata a scomparire?”. Laddove ha vinto in termini elettorali ha ottenuto successi ambigui, poi subito contraddetti da politiche che in poco o in nulla si discostavano dalla regola aurea dell’austerità europea. Oppure ha perso clamorosamente e rovinosamente, anche laddove le sue esperienze di governo erano apparse positive per quanto riguarda la capacità di invertire la rotta della crisi senza pesare sui ceti popolari, come nel citatissimo caso islandese.
Che fare di fronte a una china così rovinosa che si realizza proprio quando le contraddizioni dello sviluppo capitalistico esplodono dimostrando tutta la validità della critica dell’economia politica praticata dalla migliore sinistra? Qui le risposte di Lazar ci possono ben poco aiutare, perché rimangono troppo sul generico e l’indistinto, ma almeno lo studioso francese ci dice con semplicità cosa la sinistra non deve assolutamente fare: “proseguire la navigazione a vista, praticata spesso dalla sinistra, vuole dire spalancare le porte alle forze di protesta già in piena ascesa, che al loro passaggio rischiano di spazzare via tutti i partiti di governo. Sia di destra che di sinistra”.
Da questa riflessione sarebbe troppo riduttivo concludere che quindi le forze della sinistra devono tenersi ben lontane da responsabilità di governo, anche se questa soluzione sarebbe certamente meno rischiosa e foriera di disastri di quella che, per un del tutto travisato senso del dovere nazionale, le spinge a governi di coalizione con le destre, come nel caso italiano.
Ma limitarsi a un simile comportamento, per quanto meno rischioso, eluderebbe il problema di fondo. Se siamo alle porte del suicidio anche della socialdemocrazia nordica, dalle più forti e radicate tradizioni, che ha retto con successo la sfida che il socialismo reale aveva avanzato anche ad essa nello scorso secolo, è evidente che c’è qualcosa di più profondo in atto che non lo scompaginamento totale di ogni sistema conosciuto di alleanze. Se non basta più nemmeno l’esempio di un buon governo per garantire la continuità della sinistra al potere, come appunto in Islanda, è o dovrebbe risultare chiaro che neppure il criterio dell’efficacia dell’azione politica – che sempre a sinistra ha difettato parecchio – è sufficiente a salvarla.
In effetti, se torniamo al caso italiano, è difficile immaginare una via d’uscita. Paradigmatico il caso di Sel, la quale, basta guardare le numerose dichiarazioni del suo leader in campagna elettorale, progettava una confluenza nel Pd, concependo l’alleanza di centrosinistra come il “partito del futuro”. Del resto forze all’interno del Pd erano pronte a favorire una simile operazione nel prossimo congresso, avendo maturato la convinzione che la maggioranza del partito si sarebbe posizionata su posizioni ancora più moderate e quindi conveniva predisporsi alla costituzione di una sinistra consistente cui la presenza di Sel nelle file del Pd avrebbe potuto fare comodo. Ora questo disegno pare in ginocchio. Barca parla di “partito palestra” ma non legge i processi sociali, come se la politica nascesse dal fascino delle parole e delle definizioni, i giovani turchi sono un po’ dentro il governo, un po’ nelle manifestazioni di piazza; Sel non sembra capace di assimilare appieno il mutamento di quadro e quindi la necessità di un riposizionamento strategico; alla sua sinistra anziché momenti unificanti sembrano moltiplicarsi i progetti rifondativi, tutti farciti di buona volontà ma privi di forza e deboli di autorevolezza.
Eppure proprio la solitudine nella quale si è svolta la manifestazione della Fiom del 18 maggio, che avrebbe potuto rappresentare l’occasione per fare ripartire un progetto riunificante l’opposizione sociale, grida contro l’assenza di una forza politica che rappresenti il lavoro nella sua frastagliata modernità. Ne ha parlato anche Adriano Sofri, cosa non frequente per lui, ponendosi giustamente il tema di una “costituente di sinistra del lavoro fondato sul rispetto della salute, della dignità e dell’ambiente”. Il tema lavoro è qui visto in chiave tutt’altro che economicistica. Cose non diverse ha detto Rodotà citando più volte la Costituzione offesa dal palco di piazza San Giovanni, ove ha parlato non certo da intellettuale “compagno di strada”, come si sarebbe detto un tempo, ma da vero leader politico, anche se dichiara a ogni piè sospinto di non volerlo essere.
Ha colpito tutti l’assenza dei leader del Pd alla manifestazione della Fiom. Ma ancora peggio sono state le motivazioni apportate. Matteo Renzi ha dichiarato che un partito non vive delle manifestazioni degli “altri”, dimostrando così non solo l’estraneità della nuova elite dirigente del partito democratico, ma la sua totale e sprezzante alterità rispetto al mondo del lavoro. Non stupisce che il nuovo ministro del lavoro si appresti e presentare un pacchetto di norme che raccoglie in pieno le richieste della Confindustria sull’annullamento di qualunque causale per i contratti a termine, per la diminuzione dell’intervallo di tempo fra un contratto e l’altro e per l’abbassamento del loro costo per i datori di lavoro. Precariato for ever e per giunta a buon mercato. Chi ha buona memoria ricorderà d’altro canto che tracce di un simile disegno erano presenti negli stessi otto punti che Bersani presentò nel drammatico dopoelezioni.
Tutto questo rappresenta un certificato di morte del centrosinistra. E il suo stato di salute in Europa – pur nella diversità delle formule – non è migliore. Pensare di rivivificarlo è illusorio e rischioso perché di solito è il morto che trascina il vivo e non viceversa.
La ricostruzione della sinistra non avviene però rimettendo insieme ritagli. E’ un lavoro assai più complesso sia sul piano culturale, politico che organizzativo. Soprattutto non può essere ogni volta schiacciato sulle scadenze elettorali. Importa poco che sopravvivano piccoli ceti politici se le idee avvizziscono. Poiché il senso stesso delle parole è stato smangiato dall’interno, come dice la celebre poesia di Brecht riportata in auge da Servillo nel bel film di Andò, non ha neppure senso parlare di sinistra se non la si definisce. Non sono gli aggettivi che mancano, sono i sostantivi che sono deboli. E’ su questi ultimi che bisogna concentrarsi.
Non sarà originale ma è bene ribadire che l’obiettivo dell’uguaglianza è una delle discriminanti essenziali che separano nettamente destra da sinistra.
La prova in negativo la abbiamo avuta. L’attuale crisi è figlia dell’aumento enorme delle diseguaglianze su scala globale e nei singoli paesi e a sua volta le ha accentuate. Secondo Hickel le 358 persone più ricche al mondo hanno una ricchezza pari a quella del 45% più povero della popolazione mondiale. I 3 individui più ricchi del pianeta assommano tesori pari a quelli di tutti i paesi meno sviluppati radunati insieme, ossia 600 milioni di persone. Queste iperdiseguaglianze non sono solo il risultato cui il finanzcapitalismo strutturalmente tende, specialmente in assenza di un’adeguata resistenza al suo corso, ma l’implementazione di un pensiero politico, quello neo liberista, quello che prese le mosse dal Manifesto di Mont Pelerin del ’47, per cui la diseguaglianza è in sé un fattore di progresso e di dinamismo sociale. Se si vuole combattere le diseguaglianze deve nascere un altro pensiero politico, di cui bisogna cercare i principi fondanti.
La storia ha dimostrato ancora una volta il contrario dei mantra liberalisti. Ma la sinistra paga il fatto che laddove storicamente il principio di uguaglianza ha trovato applicazione ha portato a un “intruppamento massificante” (per dirla con Pellizzetti) sopra il quale si ergeva la casta dei dirigenti di partito occupati a sbranarsi tra loro. Oggi l’uguaglianza non può limitarsi a essere quella delle opportunità di partenza, come è in un certo pensiero liberale radicale, perché questo nulla garantirebbe contro l’aprirsi di baratri di diseguaglianza successivi, né può coincidere con il concetto di identità.
Anzi l’uguaglianza di cui abbiamo bisogno deve convivere con l’idea di differenza. La differenza di genere, di cultura, di opzioni di vita. Una differenza che non richiede di essere misurata con il denaro, di determinare una scala di valori sociali, di ingabbiare la società in ceti e caste. Una differenza che è uno dei presupposti della libertà. Non solo di quella negativa, che tanto piaceva a Isaiah Berlin, ovvero la libertà “da”, ma quella positiva: la libertà “di”. La prima considera lo stato un nemico invasivo. La seconda si propone di curvarlo alle esigenze della società. Alla prima in fondo non serve più di tanto la democrazia, le basta una condizione passiva di non oppressione. La seconda può solo inverarsi nella democrazia come partecipazione a ogni livello e spingere all’intreccio tra democrazia delegata e democrazia diretta. La prima postula la dignità di non essere offeso, la seconda la dignità del fare come responsabilità verso sé e gli altri – alcuni la chiamano solidarietà o fraternità – e considera come massima offesa l’indifferenza.
Cosa ostacola che chi condivide veramente questi valori possa unirsi e praticarli politicamente? In fondo è quello che già accade nelle esperienze migliori che si sviluppano nel tessuto civile e sociale.
(fonte::Micromega online, 21 maggio 2013)