DOVE VA LA SANITA’ PUBBLICA LOMBARDA ?

Intervento di Giuseppe Eriano*, già responsabile di reparto ospedaliero di Cardiologia, sullo stato della sanità in Lombardia.

ErianoLa progressiva esasperazione del capitalismo occidentale, che negli ultimi tempi sta evolvendo inesorabilmente verso un’implosione irreversibile per impossibilità di controllo dei meccanismi perversi da lui stesso generati,  con effetti peraltro scaricati su tutti, ha causato una sostanziale modificazione dello Stato Sociale.

In Italia  il pensiero unico che accomuna destre e PD, che ben esprimono il “programma politico” della BCE e del FMI, ha creato, con il benestare del nostro Presidente della Repubblica prima il Governo Monti ed ora il Governo Letta, altrettanto fedele alla logica del capitalismo internazionale di far pagare la crisi al popolo attraverso un progressivo smantellamento dello stato sociale.

Non potendo più superare alcuni limiti in merito a tasse e tagli alla spesa pubblica si arriva a sancire la limitazione dei servizi ai cittadini (fino alla loro scomparsa?), con l’inserimento del cosiddetto Pareggio di Bilancio (figlio del fiscal compact europeo) in Costituzione, purtroppo passato senza molto clamore dopo pochi minuti di discussione in Parlamento .

Il drammatico tentativo di trasformazione dello Stato di diritto in azienda è perfettamente riuscito: i conti dello Stato devono essere in pareggio, quindi anche i servizi vengono forniti solo in questo caso.

Il discorso è semplice: se  lo Stato non riesce a fornirli gratuitamente, li fornisce a pagamento con l’aiuto del privato: comunque il cittadino li deve pagare!

Siamo ben lontani dai diritti sanciti originariamente dalla nostra Costituzione: diritto alla salute, diritto all’istruzione, diritto al lavoro etc.

Se analizziamo la questione salute, è evidente che questa logica ha portato e porterà sempre più ad una sostanziale modificazione del concetto stesso di sanità col risultato, alla fine di questo percorso scellerato di risparmio “a tutti i costi” e di privatizzazioni selvagge (in cio’ risiede in realtà la tanto sbandierata “sussidiarietà”), di una snaturalizzazione dell’ entità   ospedale  (nel termine stesso dovrebbe essere insita l’idea di ospitalità nei confronti di chi soffre), che rappresenta attualmente ancora il più importante presidio sanitario.

L’ospedale non è più quindi un luogo dove si ospitano e si curano i pazienti, cioè i sofferenti, non è più espressione di un servizio che la società fornisce ai cittadini, al di fuori di ogni logica di interesse economico, ma un’azienda con in suoi tornaconti, che si rivolge a loro come ad utenti, nelle stesse modalità con cui ogni azienda si rivolge ai clienti.  La denominazione stessa degli Enti Ospedalieri e’ cambiata: non più “Ospedale Civile di ”, ma “Azienda Ospedaliera Ospedale Civile di”  o addirittura “Azienda Ospedaliera di” (le parole sono pietre: spesso scompare l’aggettivo civile).

I medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, gli amministrativi sono ora dirigenti, impiegati, operai, che devono rispondere più ad un logica di contenimento dei costi, che di qualità del servizio, cioè più ad una logica di efficienza (maggior quantità di prestazioni nel tempo, con minor personale possibile) , piuttosto che di efficacia (qualità del servizio fornito).   La conseguenza di ciò è una progressiva dequalificazione professionale sia dell’operatore, che viene considerato più in base alla quantità di lavoro svolto, che alla qualità dello stesso (non ha importanza come lo fai, ma quanto ne fai), sia del cittadino/paziente, considerato solo utente/cliente, in una logica peraltro incurante dell’aspetto umano sia di chi fornisce, che di chi riceve la prestazione.

La risposta al progressivo aumento delle esigenze sanitarie della popolazione, la cui età media è vorticosamente aumentata negli ultimi decenni, invece di basarsi su un aumento di fornitura di servizi in ambito pubblico, che si realizza non tanto con aumento delle strutture, quanto con aumento del personale sanitario, in Lombardia è caratterizzata da una parte dalle grandi privatizzazioni, che si avvalgono della costruzione di “nicchie sanitarie” di serie A, regolate da logiche assicurative private alla portata di pochi, relegando la massa a strutture di serie B; dall’altra da un ristrutturazione radicale delle Aziende  Pubbliche (ormai si chiamano così), che, all’insegna dell’ ottimizzazione delle risorse, di bocconiana memoria, mira in realtà al risparmio, prevalentemente sui costi fissi, cioè sugli stipendi delle risorse “medici ed infermieri”, che si realizza col limitare al massimo le nuove assunzioni.

Ottimizzare le risorse significa in questo caso svolgere una quantità di ore di lavoro pro- capite superiore a quella prevista dal comune buon senso, oltre che dal Contratto, con conseguenze, peraltro non prive di implicazioni medico-legali, che si ripercuotono sul personale stesso e sui pazienti: una qualsiasi attività che richiede attenzione, viene sicuramente fornita in qualità ridotta, per stress psico-fisico dopo troppe ore di lavoro.

E’ in questa logica di risparmio a tutti i costi che si è mossa la Regione Lombardia nella costruzione delle nuove strutture ospedaliere causando un radicale cambiamento nella funzione degli Operatori Sanitari oltre che della tipologia di cura dei pazienti.

Significativo è l’esempio degli ospedali nuovi (Como, Vimercate), la cui necessità è stata peraltro da molti tecnici messa in dubbio, considerando veramente necessario l’aumento di personale sanitario in quelli già esistenti (che con tutti quei soldi si poteva realizzare) sono suddivisi nei loro settori non più per Reparti di competenza (cardiologia, neurologia, nefrologia,  broncopneumotisiologia etc.), ma per “Aree di Intensità di Cura”: in pratica tutti i pazienti vengono collocati in diverse aree (sostanzialmente 3) in base alla gravità della loro malattia. In questo modo, se da una parte si risparmia sul personale (medici ed infermieri-tutor che seguono i pazienti con diverse patologie collocati in quell’area di intensità di cura), con maggior apparente efficienza del sistema ospedale, dall’altra si perde sicuramente in qualità delle prestazioni (minor efficacia) in quanto gli infermieri precedentemente addestrati ad una sola tipologia di paziente (il cardiopatico, il nefropatico, il broncopneumopatico) si trovano ora ad affrontarne diverse ed i medici specialisti di un determinato settore non vedono più i pazienti “settorializzati” nei loro reparti, ma distribuiti nella varie aree con necessità di ampi spostamenti per poterli visitare (in considerazione anche delle caratteristiche architettoniche (vedi Ospedale di Vimercate a forma di fiore) e, in occasione di consulenze o decisioni collegiali, di continue ricerche di altri colleghi specialisti nello stesso o in altri settori non più facilmente ritrovabili nei loro reparti, ma anch’essi erranti per i lunghi, spesso inutili corridoi della struttura.

Ne deriva che “Intensità di Cura” non significa “Intensità di Assistenza” (tempo ed attenzione per il paziente) che si basa invece sull’individuazione di specifici problemi clinici, sulla loro conoscenza, il più possibile approfondita e sull’impostazione dei diversi protocolli operativi idonei alla loro risoluzione.

Solo il parere sfavorevole di molti operatori sanitari delle “Aziende Ospedaliere” coinvolte, che si sono resi conto “sul campo” di questo progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali (medici-infermieri-pazienti-parenti), strettamente correlato ad una gestione che non tiene conto né delle esigenze dei pazienti/cittadini, né della qualità lavorativa del personale, ma solo del contenimento dei costi, e dell’impossibilità di procedere in questa direzione senza rischi per i pazienti e per loro stessi, ha condizionato e condiziona un lento,  graduale, tentativo di ritorno ai “Reparti Specialistici” (moduli), tentativo  peraltro di difficile realizzazione in quanto le strutture erano state programmate per il modello “Intensità di Cura”.

L’obiettivo principale deve tornare ad essere la difesa e tutela della salute che si attua principalmente attraverso la difesa della sanità pubblica, in quanto unica garante di trattamento equo ed uguale per tutti e soprattutto indipendente dal guadagno derivante dai rimborsi regionali.

Nel caso della Lombardia, questo significa anche concorrere a modificare sostanzialmente la Legge regionale 31 del Luglio1997 nei suoi 4 capisaldi fondamentali:

1) Divisione di competenze fra ASL ed ospedali. La divisione fra chi richiede (ASL) e chi eroga prestazioni sanitarie (Azienda Ospedaliera) ha portato ad un maggior controllo politico della sanità (ed in Lombardia sappiamo cosa significa), in particolare la nomina di chi dirige ASL ed ospedali dipende da una scelta politica ben precisa e la designazione di questi dirigenti (che per ogni Ospedale sono diventati addirittura 3 : Direttore Generale, Direttore Amministrativo, Direttore Sanitario, è sempre meno correlata alle effettive competenze, ma sempre più ad una logica di spartizione che porta a creazione di reparti, servizi, strumentazioni senza una precisa programmazione. Anche la scelta delle figure apicali più frequentemente non avviene tanto per merito o per professionalità, quanto per accontentare quello o quell’altro politico (come mai in Lombardia moltissimi dei nuovi primari sono di CL?).

2) Sussidiarietà. Al momento della stesura della legge la sussidiarietà prevedeva che pubblico e privato fossero complementari per fornire un servizio di maggior qualità ai cittadini. Anche nella logica della Legge (peraltro non condivisa dal Gruppo consiliare  comunista), questa complementarietà non si è realizzata; assistiamo infatti ad una netta prevalenza del privato sul pubblico, con criteri di accreditamento delle strutture private (Cliniche ed Ospedali) a dir poco elastici, per usare un eufemismo, con la creazione di un business eccezionale. Gli imprenditori privati infatti si sono rivolti sempre più, in questi ultimi anni, verso questo settore, considerando la Sanità “la vacca da mungere”: migliaia di posti letto (in contrapposizione ai tagli nelle strutture pubbliche), apparecchiature nuovissime, ambulatori, personale sanitario nelle mani di colossi economici del settore privato, tanto forti da poter condizionare loro stessi la politica regionale, come si è visto, al di fuori di una logica di programmazione sanitaria del territorio ed al di fuori di contratti di lavoro controllabili dalle forze sindacali (gli operatori sanitari delle strutture private hanno contratti libero professionali).

3) Concorrenza tra pubblico e privato. La concorrenza tra Ospedali pubblici e strutture private accreditate, tanto sbandierata dalla L.R. 31, è in realtà inesistente a causa della totale assenza di regole di gestione dell’Ospedale privato, che, fra l’altro, dei due è il più foraggiato dalla Regione (con i soldi dei cittadini) rispetto all’ Ospedale Pubblico, che, per acquistare un macchinario, deve avere l’approvazione della Regione e procedere successivamente e giustamente,  ad una gara pubblica. Eppure spesso il Pubblico ha grandi potenzialità culturali e professionali che non può sviluppare per mancanza di fondi.

4) Libera scelta dei cittadini. A questo punto, dire che il cittadino ha libertà di scegliere dove andare a farsi curare, senza spendere soldi, è quasi raccontare una barzelletta: non solo il cittadino sceglie più spesso il privato a causa di liste d’attesa interminabili del pubblico (il privato ha potuto meglio organizzarsi per le maggiori risorse a sua disposizione), ma, se volesse anche rimanere in ambito pubblico perchè ha fiducia di quel Reparto o di quel medico in particolare, dovrebbe pagare (attività libero professionale intramoenia) per avere una prestazione in tempi umani. Fra l’altro gli accreditamenti facili hanno portato in Lombardia al fenomeno “Santa Rita ” in cui le inconsapevoli scelte dei pazienti si sono rivelate in alcuni casi purtroppo fatali.

La medicina di base, che dovrebbe fare della prevenzione primaria il suo caposaldo (l’educazione sanitaria deve  tendere  alla modificazione degli “stili di vita”), non solo non riesce a svolgere appieno questa funzione, ancora relegata alla “buona volontà” del singolo medico, ma non riesce neppure a  collaborare proficuamente con quella specialistica ospedaliera allo scopo di mettere in atto un adeguato programma di prevenzione “secondaria”, in quanto non esiste una programmazione regionale della sanità pubblica in grado di connettere e di integrare il lavoro dei reparti ospedalieri (sarebbe giusto chiamarli ancora così) con quello dei medici di medicina generale, perchè più in generale non esiste un “Piano del Territorio” che comprenda anche la questione salute.   Il proponimento di  riordino del territorio  del precedente governo nazionale (il problema non è stato ancora seriamente affrontato dal governo attuale forse perché considerato poco rilevante), dimenticando completamente i Distretti sociosanitari, che della sanità territoriale dovrebbero essere il fulcro, vorrebbe farci credere che i medici di medicina generale, come per incanto, si associno in studi con gli specialisti, supportati da personale infermieristico in numero tale da sopperire 24ore su 24 alla domanda sanitaria di gran parte della popolazione, riducendo drasticamente gli accessi in Pronto Soccorso, decongestionando,quindi,  gli Ospedali.  Il tutto a costo zero (grandioso, neppure i Fratelli Grimm sarebbero riusciti a pensare una cosa del genere)!

Battute a parte (la salute è una cosa seria, a conferma del fatto che la spesa sanitaria prende gran parte del bilancio regionale) vorremmo che si smettesse di canalizzare preferenzialmente le risorse verso il privato e che si procedesse con una programmazione ben precisa a sostegno della sanità pubblica,  tenendo conto delle esigenze dell’intera popolazione.

*già responsabile di reparto ospedaliero di Cardiologia 

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