I DUE VOLTI DI MILANO (dal grattacielo col bosco verticale alle case popolari)

milano

di Bruno Casati  (Presidente CCCM)

…l’uomo si trova di fronte tutt’a un tratto la città di Moriana  con le porte di alabastro

trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo… l’uomo sa già che le città come queste

hanno un rovescio. Basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiere arrugginite…

(da “Le città invisibili” di Italo Calvino)

Milano oggi non è più la città grigia e nebbiosa come era e come veniva rappresentata cinquant’anni fa. Questa città, come la Moriana di Calvino, ha un suo rovescio: da una parte è la metropoli europea “glamour”, dove in molti accorrono come su un set per sentirsi protagonisti degli eventi che si susseguono e ci si mette in fila per ore per bere un caffè allo Star Bucks di Piazza Cordusio o per farsi un selfie davanti a un quadro delle mostre di Palazzo Reale. Si è diffusa la febbre contagiosa dell’”eventismo”. Poi c’è la faccia nascosta delle case popolari degradate, dell’inquinamento atmosferico soffocante, delle  bande di “latinos” che devastano il métro e delle lunghe file, queste non per un evento, ma per mangiare alle mense dei frati. Milano è questa: la città delle grandi disuguaglianze in cui convivono, allontanandosi, ricchezza e povertà: il centro dei benestanti e le periferie del disagio degli ultimi e dei penultimi. Mense dei poveri e chef stellati. Viene da citare Bertold Brecht, il quale disse  di non aver mai visto l’inferno e il paradiso  così vicini come nella ricca America, lo stesso a Milano.

E la lotta di classe in questa Milano è dispiegata ma non esplode,  perché, in “seno al popolo” delle periferie, viene artatamente alimentato il  conflitto tra i penultimi (i lavoratori e i pensionati italiani) e gli immigrati che sono gli ultimi. Il permanere di questo conflitto( ci sono dei partiti che ci campano mantenendolo aperto) comporta che venga frenato quello indirizzato verso i poteri forti che usano la città per i loro interessi e calpestano quelli dei ceti popolari, che devono pertanto restare divisi a beccarsi reciprocamente, come i polli che Renzo Tramaglino portava verso la pentola del notaio Azzeccagarbugli. Tutto ciò avviene in una Milano che, nel corso degli ultimi dieci anni in particolare, è cambiata e, riconosciamolo, l’EXPO nel bene o nel male, ha impresso la spinta propulsiva per il cambiamento (ora resta un’area tristemente dismessa). Ed è cambiata anche antropologicamente. Utilizzo una metafora per illustrarlo: quella del cortile di via Spallanzani, in cui apre la sede il nostro Centro Culturale Concetto Marchesi. Sul cortile si affacciano tre teorie di milanessime ringhiere dove, sui ballatoi di ognuna, si aprono gli appartamenti che, nel dopoguerra, erano abitati da famiglie proletarie, ora dei tramvieri ora dei piccoli impiegati delle Poste o del Comune. Oggi la vecchia ringhiera è un brand, vi abita ancora qualche famiglia resistente di lavoratori e pensionati, ma è sopraggiunta una nuova leva –composta da professionisti rampanti, dirigenti, brokers, creativi futuristi- che ha fatto ristrutturare dagli architetti i vecchi alloggi e, questa neoborghesia arrogante, si vergogna di convivere sullo stesso ballatoio con i residui proletari. E li vuole cacciare. Le riunioni dell’Assemblea  condominiale, che si tengono nei locali del nostro Centro Culturale sotto lo sguardo severo di Marx  e Lenin che le seguono dall’affresco, sono vere e proprie scene di lotta di classe in un interno: i ricchi contro i poveri. Ecco, il cortile della metafora allude alla faglia materiale che divide la citta, come del resto divide molte grandi città dell’Occidente, tra neoborghesia  (il centro) e neoproletariato (la periferia). La neoborghesia del capitalismo personale, della new economy, del lavoro indipendente, della conoscenza. Il neoproletario del lavoro intermittente, dei lavoratori dei servizi, dei piccoli negozianti espulsi dal loro esercizio, degli immigrati e di un inedito lumpenproletariat  urbano. Due classi contrapposte. Con un riflesso che da antropologico diventa politico. Ed è molto interessante a tal proposito rilevarlo: perché i benestanti, quelli che nel passato si riconoscevano in Malagodi e poi, dopo Craxi (che ne fu la levatrice) votarono Berlusconi (Dell’Utri fu eletto nella zona 1), oggi, abbagliati dalla nuova “Milano da bere” che avanza dopo l’EXPO, votano Pd. E i meno abbienti quelli che una volta votavano a sinistra, come sulla ringhiera del nostro cortile, oggi non trovando più un partito che si schiera per rispondere ai loro bisogni, o non votano o votano Lega e M5S. Sulla nostra ringhiera succede esattamente questo. È intervenuto pertanto un rovesciamento, più o meno come negli USA , dove è un miliardario fascistoide che dà voce ai ceti popolari abbandonati dai democratici che invece vengono votati dalle élites delle ricche città costiere. Ma oggi il centro benestante di Milano è posto sotto assedio, così come lo è il PD che vi ha investito. L’opposizione, non più di sinistra, ha già riconquistato i quartieri periferici di Niguarda, Musocco, Quarto Oggiaro, Baggio e, inoltre, nella citta metropolitana, ha espugnato le roccaforti già operaie di Sesto, Cinisello Balsamo, Bresso, Cologno. Come è potuto succedere? È successo perché in questi anni si è pensato, a Palazzo Marino, che fosse sufficiente lucidare la città dell’”Area C” per avere consenso. E oggi, anche noi,  rischiamo di non capire, dovessimo  limitarci a guardare solo a questa Milano lucidata che fa da scenario agli eventi e alle settimane, ora della moda, ora di altro, se si guarda solo alla Milano della Darsena o di piazza Gae Aulenti con il Bosco verticale o a quella di City Life con i tre grattacieli sghembi.  Così come  non capiremmo solo enumerando, magari compiaciuti, gli investitori esteri sbarcati a Milano, che sono tanti: dagli Australiani per l’area ex-Expo, agli arabi arrivati al Garibaldi-Repubblica e sull’area ex-Falck di Sesto San Giovanni, sino ai Cinesi che hanno comperato la Pirelli e, con Suning, la società calcistica dell’Internazionale. Guardando solo alle grandi opere e ai grandi investitori si può perdere di vista, e la si è persa, la lettura completa di Milano che, invece, ci racconta di una metropoli  cambiata e che crea indubbiamente  valore, ma questo valore, ecco il punto, non viene distribuito. Detto diversamente: il Prodotto Interno Lordo di Milano in questi anni è aumentato, ma si è depositato solo su una parte della città. E l’altra parte protesta, per ora con il voto: quello politico del 4 marzo già ci dice che la maggioranza di centro-sinistra che guida la città è a rischio e ci dice anche che l’accumulo di consenso trasversale che si era registrato nel 2010 per Giuliano Pisapia Sindaco  (anche nel nostro cortile) è stato dilapidato (già da Pisapia stesso in verità). E, d’altra parte, cosa volete che interessi a un cittadino di Niguarda e dell’Isola se l’acqua dei Navigli verrà portata o meno in centro quando lui è preoccupato, certo, ma per l’acqua del fiume Seveso che esonda a casa sua a ogni temporale? Cosa volete che interessi a un abitate di Rogoredo e di Viale Padova se si faranno o meno le Olimpiadi della Neve, quando lui va al Pronto Soccorso e deve aspettare 12-14 ore per essere visitato (il Pronto Soccorso è uno dei laboratori di formazione del leghismo) e deve  mettersi in fila per 18 mesi per essere operato all’anca? Quando poi questo cittadino, di Niguarda e Rogoredo, prenderà coscienza che il biglietto del tram viene portato a 2 euro, il più alto in Italia, per chiudere il buco di bilancio che si è aperto per concludere l’inutile linea mètro 4 (la “blu”) voluta dalle destre (in un’operazione economicamente catastrofica che ha comportato un ulteriore privatizzazione di A2A e dalla quale il pavido Pisapia avrebbe dovuto sottrarsi pur pagando le penali, ma non l’ha fatto ed e scappato, non ricandidandosi per il secondo mandato), ma cosa volete che voti questo cittadino? Ed infine, cosa dovrebbero dire i precari, i sottoccupati, i disoccupati dinnanzi al non funzionamento dei Centri per l’Impiego, le cosidette agenzie AFOL, abbandonati dopo il dannoso superamento delle Province, voluto proprio da quel PD che le aveva moltiplicate solo l’anno prima? A tal proposito l’Assessora al Lavoro del Comune di Milano invece di imbucarsi alle sfilate di moda farebbe bene a guardare quel che si fa a Parigi e Barcellona per mettere in contatto la domanda con l’offerta di lavoro; perchè è sull’offerta di lavoro che si può concretamente misurare quanto del valore accumulato dagli investitori in una città viene distribuito tra i suoi cittadini. Ai tempi di Giuseppe Di Vittorio questa distribuzione negoziata veniva definita come “l’imponibile di manodopera”, ma allora esisteva il “sindacato di classe”; l’attualizzazione di un moderno imponibile esige, oltre al Sindacato, un Sindaco che non sia solo dei benestanti e dei business. C’è infine una partita che questa Milano-glamour ha perso già con Pisapia e poi con Sala: con ben 8 Università, Milano è potenzialmente la capitale d’Italia della scienza o almeno poteva essere questo. Ma così non è stato perché oggi a Milano “non si riesce a trasferire la scienza in tecnologia”, così dice Gianfelice Rocca, già Presidente di Assolombarda. E se lo dice lui…! È una questione seria, perché le Università sfornano talenti di alto livello, ma l’industria della città metropolitana, operando in larga misura in condizioni di contoterzismo e subforniture estere, non li sa utilizzare, non li può utilizzare, in quanto abbisogna di formazione di livello inferiore, certo con eccezioni come ST Microelectronic di Agrate. Ed è così che i laureati di Milano vanno all’estero. O riparano nelle famose start-up tanto interessanti quanto irrilevanti ai fini di cambiare segno a un’economia. E i padroni che non  sono incalzati, traggono utili dal pozzo Milano, ma l’utile non sgocciola sulla città. Milano, in sintesi, è una bella vetrina che però espone quel che non produce o produce su brevetti altrui. Con tanti saluti all’apologetica dell’industria 4.0 e alla retorica dell’innovazione. Su questo raccordo scienza-tecnologia una sinistra non dimentica di sè stessa deve tornare a investire, anche perchè nel raccordo ci sono i soggetti protagonisti del futuro della città (e della  sinistra). Questa sinistra non c’è a Palazzo Marino ed è dispersa fuori dal palazzo. Giuseppe Sala ,il sindaco, si è assegnato il compito di attrarre capitali su grandi progetti, dai Navigli agli Scali Ferroviari, ma non si propone certo di far ricadere valore aggiunto sui quartieri. Lui è un top-manager della  destra economica (perché si può essere antifascisti, e Sala lo è e lo manifesta e io ci credo, ma  anche, e insieme, funzionari del capitale, come lo sono Calenda e Davide Serra). Il PD di Renzi, dopo aver perso Roma, Napoli e Torino, aveva investito su Sala e su Milano, che è stata, si ricordi, l’unica città italiana in cui è prevalso il Sì al referendum anticostituzionale. Da allora il vento è cambiato, soprattutto per Renzi e anche Sala si è sottratto al suo abbraccio. Troppo tardi! Perché si è scavato in città un baratro tra centro e periferie. Che farà Sala, il garante delle Grandi Opere, se Milano risulterà persa per la coalizione che con qualche sforzo l’ha sostenuto? Non lo so, sono però convinto che per la sinistra  politica di Milano, debba cominciare la lunga marcia per strappare le periferie alla destra. Se la città è cambiata, e noi dobbiamo proporci di “cambiare la città cambiata”, dobbiamo parallelamente proporci di cambiare anche noi stessi.

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