di Vladimiro Giacchè (Filosofo ed economista)
La leggenda di una economia tedesco-orientale al disastro nel 1989 – anzi: da sempre disastrosa – è ormai diventata senso comune, non solo in Germania. Ma è falsa. Non soltanto le difficoltà economiche della Repubblica Democratica Tedesca non ne facevano una “economia decotta” (“marode Wirtschaft”), ma i risultati raggiunti in 40 anni di storia vanno considerati tutt’altro che trascurabili. A dispetto di condizioni di partenza e di contesto estremamente sfavorevoli.
La storia della RDT inizia il 7 ottobre 1949 con un paese semidistrutto dalla guerra. A differenza della Germania Ovest, è privo di materie prime e per giunta deve sopportare quasi per intero il peso delle riparazioni di guerra decise dai vincitori e dovute all’Unione Sovietica. Siccome la RFT smise molto presto di onorare le sue obbligazioni, le riparazioni pagate dalla RDT finirono per ammontare a 99,1 miliardi (DM del 1953) contro i 2,1 miliardi pagati dalla RFT. Un rapporto di 98 a 2. Calcolata per abitante, la sproporzione è ancora maggiore: 130 a 1. Nel 1989 il prof. Arno Peters calcolò quanto avrebbe dovuto pagare la RFT alla RDT per pareggiare il conto, computando gli interessi: 727,1 miliardi DM del 1989.
Questo enorme peso aggravò la scarsità di capitali della RDT e ne condizionò il futuro, rallentandone il tasso di accumulazione. Un altro elemento sfavorevole per la RDT fu rappresentato, sino al 1961, dall’emigrazione all’Ovest di 2 milioni di persone (circa il 20% della forza lavoro complessiva). Complessivamente sfavorevole fu anche l’integrazione nel COMECON, composto da economie – salvo la Cecoslovacchia e la stessa RDT – più arretrate di quelle occidentali, ma soprattutto tagliato fuori dal mercato mondiale. Alla segregazione dal mercato mondiale contribuì non poco la RFT, con la cosiddetta “dottrina Hallstein”, che prevedeva l’interruzione dei rapporti diplomatici con i Paesi che avessero riconosciuto la RDT. Infine, sino all’ultimo restò in vigore l’embargo occidentale sull’alta tecnologia, che costrinse la RDT a costruire da sé molti prodotti che in teoria sarebbe costato di meno comprare. I fattori positivi dell’integrazione nel COMECON, rappresentati dall’accesso al mercato sovietico, che consentiva economie di scala ideali per la produzione in serie di macchinari, e l’acquisto del petrolio per anni al di sotto dei prezzi internazionali, non sono tali da controbilanciare quei lati negativi.
Le vicende dell’economia della RDT
Il sistema economico della RDT fu inizialmente rigidamente centralizzato, sul modello sovietico. Questo sistema diede frutti positivi nei primi anni della ricostruzione, ma col passare degli anni si adattò sempre meno a un paese industrialmente avanzato quale la RDT. Si pose in particolare il problema di lasciare maggiore autonomia alle imprese, pur nella cornice dell’economia pianificata.
Nacque così il più importante tentativo di riforma del sistema economico della RDT: esso trovò il convinto sostegno di Walter Ulbricht, allora segretario della SED, e fu effettuato nei primi anni Sessanta. Il “Nuovo sistema economico di pianificazione e direzione” prevedeva l’introduzione di meccanismi di mercato e sistemi di incentivazione materiali per imprese e lavoratori: l’obiettivo era far sì che l’interesse dei singoli attori economici coincidesse con quello del sistema.
La riforma produsse risultati economici importanti: dal 1964 al 1970 la crescita del reddito nazionale fu in media del 5% annuo, e il tasso di accumulazione dal 1965 superò il 20%. Ma essa incontrò due problemi. Il primo era che il sistema avrebbe dovuto basarsi su misure oggettive dei prezzi (per poter determinare valori, profitti e perdite); ma i prezzi erano fissati in maniera amministrativa, e non fondati sul rapporto tra domanda e offerta: e quindi non rappresentavano un metro di misura affidabile. Il secondo e più grave problema consisteva nel rischio che l’ammissione di decisioni indipendenti delle entità economiche, oltre a comportare limitazioni all’amministrazione economica centrale, vulnerasse l’architettura del sistema, ivi incluso il ruolo guida del partito nell’indirizzare l’attività economica. Fu questo lo scoglio su cui si infranse il tentativo di riforma e fini la leadership di Ulbricht.
La politica di Honecker rappresentò un’inversione di rotta rispetto alle riforme economiche. Tre i cardini di questa politica. Primo: l’“unità della politica economica e sociale”, che prevedeva una corrispondenza tra crescita economica (prevista al 4% annuo) e aumento dei redditi. Secondo: la sottolineatura del ruolo della classe operaia come “forza dirigente della società”, da cui si fece discendere la liquidazione delle imprese private ancora presenti. Terzo: un grande piano di edilizia popolare.
Il secondo punto era un grave errore che privò l’economia della RDT di circa 11.000 imprese vitali che svolgevano un ruolo importante e complicò i compiti della pianificazione centrale. Il primo e il terzo punto rappresentavano un piano ambizioso di distribuzione della ricchezza, che in parte fu realizzato ed ebbe effetti non trascurabili in termini di benessere per la popolazione. Il prezzo però fu molto elevato.
Si ebbero infatti tre fenomeni negativi.
In primo luogo, i consumi e gli investimenti in edilizia andarono a scapito degli investimenti produttivi nel settore manifatturiero. La quota dell’accumulazione nel reddito nazionale scese dal 29% del 1970 al 21% del 1988, quella dell’accumulazione produttiva dal 16% al 9%. Questo si tradusse in un invecchiamento dei macchinari e in insufficienti investimenti infrastrutturali. E siccome il tasso di accumulazione è essenziale per la crescita futura, venivano così pregiudicati gli stessi tassi di crescita necessari per sostenere l’“unità di politica economica e sociale”.
In secondo luogo si ebbe una crescita ininterrotta, nel bilancio dello Stato, del peso dei prezzi sovvenzionati (tenuti fermi, anche per molti generi non essenziali, ai livelli del 1944 e in qualche caso del 1936), che giunsero al 30% del bilancio nel 1988. Queste sovvenzioni non poterono più essere finanziate con i profitti delle imprese statali e costrinsero lo Stato a un crescente indebitamento.
Crebbe quindi, in terzo luogo, il debito in valuta pregiata, con una spesa sempre più onerosa per interessi, anche a causa del drastico aumento dei tassi di interesse causato dalla stretta monetaria attuata da Volcker negli USA a partire dal 1979.
Gli anni Ottanta sono caratterizzati dal non adempimento dei piani, da una crescente usura degli impianti e da insufficienti investimenti nelle infrastrutture, nella sanità e nella protezione dell’ambiente. L’economia della RDT continuò però a crescere, sia pure a tassi inferiori. Il reddito pro capite a fine anni Ottanta era di poco inferiore a quello della Gran Bretagna e molto superiore a quello della Spagna. Quanto a volume delle esportazioni (per oltre il 90% costituite da prodotti industriali), la RDT era al 16mo posto a livello mondiale e al 10mo posto in Europa. Da esse traeva oltre il 50% del proprio reddito nazionale.
Negli anni Ottanta la produzione industriale per abitante era superiore a quella di tutti gli altri Paesi dell’Est (quasi doppia di quella dell’Ungheria e più che doppia di quella polacca). Prestazioni e servizi sociali, d’altra parte, erano molto più estesi che ad Ovest. Gli asili ospitavano più di 9 bambini in età prescolare su 10. C’era la piena occupazione, anche femminile: lavorava il 92 % delle donne in età da lavoro. La scuola era gratuita e garantita a tutti.
Il 7 ottobre 1989 la RDT era il paese economicamente più avanzato tra i paesi dell’Europa Orientale. Aveva 20 miliardi di marchi di debiti con l’estero, ma era tutt’altro che “in bancarotta” (“pleite”), come invece si continua a sostenere (20 miliardi di marchi sono una cifra ridicola se confrontata con i debiti pubblici odierni degli Stati europei, Germania inclusa).
900 miliardi di marchi svaniti nel nulla
Quanto accadde dopo quel 7 ottobre è noto. Destituzione di Honecker, apertura del Muro, le elezioni del marzo 1990 che consegnano una vittoria schiacciante alla CDU dell’Est e ai suoi alleati, l’unione monetaria con l’Ovest nel luglio del 1990 e quella politica nell’ottobre dello stesso anno.
Per capire la traiettoria dell’economia dell’Est della Germania in questi ultimi 25 anni bisogna partire proprio dall’unione monetaria, che fu effettuata non soltanto senza alcun periodo di transizione, ma al tasso di conversione di 1 a 1 per i prezzi correnti (mentre il tasso in uso per i commerci tra le due Germanie era di 1 a 4,44). L’allora presidente della Bundesbank Karl Otto Pöhl ebbe a dire anni dopo che in questo modo la RDT fu sottoposta a “una cura da cavallo che nessuna economia sarebbe in grado di sostenere”. In effetti le imprese della RDT persero con l’unione monetaria, in un colpo solo, il mercato della RFT e dei Paesi occidentali (per i quali veniva meno la convenienza di prezzo sino ad allora in essere), i mercati dell’Est, rispetto ai quali le transazioni ora avvenivano attraverso una valuta forte (e quindi anche in questo caso con una crescita sostanziale dei prezzi), e gran parte del mercato interno, che venne letteralmente invaso dai prodotti più convenienti della Germania Ovest.
Non basta. Nel luglio 1990 le fabbriche e imprese statali della RDT vengono conferite alla Treuhandanstalt. La privatizzazione è considerata priorità assoluta, anche rispetto al risanamento. Moltissime imprese vengono liquidate, e l’87% di quelle privatizzate finisce in mano a imprese tedesco-occidentali. Nella migliore delle ipotesi, le imprese dell’Est divennero filiali di quelle dell’Ovest. Nella peggiore, furono comprate e chiuse per eliminare concorrenti e per speculare su terreni e immobili di pertinenza. Il risultato fu una distruzione di ricchezza sociale di enormi proporzioni. Se il 19 ottobre 1990 l’allora presidente della Treuhand, Rohwedder, aveva potuto indicare in 600 miliardi di marchi il valore “dell’intera insalata” da privatizzare, quando a fine 1994 la Treuhand chiuse i battenti al posto di quella cifra era comparso un buco di 256 miliardi: era stato distrutto valore per circa 900 miliardi di marchi.
Ancora maggiori furono i costi sociali. Secondo stime governative tra fine 1989 e inizio 1990 le imprese poi passate sotto il controllo della Treuhand occupavano 4 milioni e 100 mila lavoratori. Alla fine del 1994 ne restavano appena 104.000. La Treuhand vantava come un grande successo il milione e mezzo di posti di lavoro promessi dagli acquirenti delle imprese privatizzate. Anche volendo prendere per buono questo dato, in 4 anni di attività la Treuhand ha distrutto 2 milioni e mezzo di posti di lavoro.
Ulteriori danni alle imprese dell’Est derivarono dalla decisione di considerare come veri e propri crediti le partite di giro tra lo Stato, le banche pubbliche e le imprese statali della RDT: questi cosiddetti “vecchi debiti” (“Altschulden”) costituirono un ulteriore pesantissimo onere per le imprese interessate e un fantastico regalo alle banche dell’Ovest che avevano acquistato le banche dell’Est a un prezzo risibile (824 milioni di marchi in tutto). I “vecchi debiti” non riguardarono soltanto le imprese industriali. Vanno ricordati anche i crediti per l’edilizia, superiori ai 20 miliardi di marchi, e quelli delle cooperative agricole, di circa 8 miliardi di marchi. È degno di nota che, nonostante la sottocapitalizzazione di partenza e questo onere ulteriore molte cooperative siano comunque riuscite a resistere e oggi evidenzino risultati economici in media migliori delle imprese agricole dell’Ovest.
Un’ulteriore decisione gravida di conseguenze negative riguardò il “principio di restituzione” (“Rückgabe vor Entschädigung”), in base al quale tutti i proprietari (di terre, case o imprese) espropriati dallo Stato durante i 40 anni di esistenza della RDT avrebbero avuto diritto alla restituzione del bene nazionalizzato. Si ebbero 2,17 milioni di cause per restituzione. La ratio di un provvedimento dalle conseguenze così gravi da restare un unicum nella storia contemporanea è molto semplice: la cancellazione di 40 anni di storia. A cominciare, ovviamente, dai rapporti di proprietà.
Collasso economico e stagnazione
L’impatto dell’unificazione economica sulla Germania Est è sintetizzabile in poche cifre. In due anni, dal 1989 al 1991, il prodotto interno lordo segna un -44%, la produzione industriale addirittura -65%; i disoccupati ufficiali (quelli registrati negli uffici del lavoro) sono 830.000; ma, soprattutto, il numero degli occupati scende di oltre 2 milioni di unità (2.095.000), dagli 8,9 milioni del 1989 ai 6,8 milioni del 1991.
Il crollo del prodotto interno lordo nel 1990 e 1991, in particolare, è impressionante. Nessuno tra i paesi dell’Est ha fatto di peggio. Se estendiamo il confronto agli anni successivi, il risultato non cambia. La crescita media annua della ex-RDT dal 1990 al 2004 è stata inferiore al punto percentuale. Negli altri paesi ex-socialisti è stata decisamente superiore. Lo stesso vale per il periodo successivo, con la sola eccezione dell’Ungheria.
Altrettanto eloquente è il confronto tra il pil pro capite della ex-Germania Est e quello dell’Ovest. Se nel 1989 il pil per abitante della RDT era pari al 55% della RFT, nel 1991 crolla al 33%; negli anni successivi le distanze si accorciano e si giunge al 60% del 1995; da allora, però, il divario non si riduce sensibilmente: ancora nel 2009, a 20 anni dall’unificazione, il pil pro capite dell’Est non era di molto superiore ai due terzi di quello della RFT. Se si considerano le cose dal punto di vista del contributo della Germania Est al prodotto interno lordo tedesco complessivo, esso è ancora oggi inferiore a quello del 1989, e in calo: se allora era pari all’11,6%, nel 2007, 18 anni dopo, era dell’11,5%; e nel 2011 è stato pari all’11%.
Tra i cambiamenti più spettacolari verificatisi nell’economia della Germania Est dopo l’unione monetaria, un posto di rilievo, per ampiezza e rapidità del processo, spetta alla dinamica delle esportazioni. Esse crollarono in soli 2 anni del 56%: dagli oltre 41,1 miliardi di marchi (ovest) del 1989 agli appena 17,9 miliardi nel 1991. Più che dimezzate anche le esportazioni verso i paesi dell’Europa centro-orientale, che assieme alla Russia rappresentavano i due terzi delle esportazioni della RDT: in questo caso si passa dai 28,9 miliardi del 1989 agli 11,9 del 1991. Ma nel 1994 esse scenderanno addirittura al 16% del livello del 1989. Il crollo è talmente accentuato da ripercuotersi sul valore globale delle esportazioni tedesche nei paesi dell’Est. Soltanto nel 1995 l’export tedesco verso l’Europa dell’est torna praticamente al livello del 1989: 61 miliardi contro i 61,4 dell’89. Ma nel frattempo le esportazioni della RDT sono crollate ad appena 5 miliardi, ossia al 17% del valore originario, e la quota è stata conquistata dall’Ovest, che nello stesso periodo passa da 31,8 miliardi di esportazioni a 56 miliardi (+176%).
Il processo di deindustrializzazione fu anch’esso estremamente rapido. A fine 1991 la produzione industriale era ormai un terzo di quella precedente la “svolta” dell’89.
Dalla fine dell’89 alla primavera 1992 furono distrutti 3,7 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato. E tra il 1992 e il 2009 è andato perduto un altro milione e mezzo di posti di lavoro a tempo pieno, il 27% del totale. Una parte di essi si è trasformata in posti di lavoro a part-time e sottopagati. Un’altra parte è andata a infoltire le schiere dei disoccupati. Oggi nella ex Germania Est vive un sesto della popolazione della Germania, ma la metà dei disoccupati. Nelle famiglie dell’Est c’è una percentuale di disoccupati doppia rispetto all’Ovest. E secondo uno studio della società di consulenza PricewaterhouseCoopers riportato il 27 agosto di quest’anno dalla “Thüringer Allgemeine” il numero degli occupati ad Est diminuirà di un altro 10 per cento entro il 2030.
Quanto all’emigrazione, i flussi di popolazione in uscita tra il 1989 e il 2006 hanno interessato 4,1 milioni di persone, il doppio di coloro che erano emigrati nei 10 anni precedenti la costruzione del Muro nel 1961. Il saldo complessivo (ossia anche tenendo conto delle persone trasferitesi dall’Ovest all’Est) risulta inferiore ma comunque impressionante: 1 milione e 740 mila persone. Si tratta del 10,5% della popolazione di partenza. Il trend non si è invertito negli anni successivi.
La denatalità, assieme all’emigrazione, ha contribuito a determinare un calo della popolazione che nel cuore dell’Europa non si conosceva dai tempi della Guerra dei Trent’anni: lo ha denunciato già nel 2003 l’allora ministro della cultura del Brandeburgo, Steffen Reiche, dell’SPD.
Ma c’è un altro fenomeno che balza agli occhi con immediata evidenza a chiunque visiti i territori che furono la Germania Est: lo spopolamento delle città, e di gran parte di quelli che erano stati centri industriali. Tra le conseguenze, un’enorme quantità di immobili vuoti, stimati nel 2003 da Manfred Stolpe – all’epoca ministro dei trasporti e dell’edilizia – in 1,3 milioni. La soluzione? Abbattere i palazzi in eccesso. In Germania hanno coniato un termine per questo: “Rückbau” (“decostruire”). In questo modo la “ricostruzione dell’Est” (“Aufbau Ost”), passando per la distruzione (“Abbau”) delle industrie dell’Est, diventa “decostruzione” (“Rückbau”) dell’Est.
E i famosi trasferimenti all’Est della Germania di cui tanto si parla? In merito il pubblicista francese Guillaume Duval ha osservato: “i trasferimenti pubblici verso l’Est di cui i tedeschi dell’Ovest si lamentano” in realtà sono stati “in misura preponderante riciclati all’Ovest nella forma di acquisto di beni e servizi”. La Germania Est è infatti divenuta un’economia assistita, i cui consumi – pagati coi trasferimenti del governo federale – arricchiscono le imprese dell’Ovest.
I trucchi per nascondere il disastro
Nel 2000 Hans-Werner Sinn poteva dichiarare che “l’unificazione dal punto di vista economico è fallita”. Chi oggi vuole dimostrare il contrario è costretto a fare ricorso a trucchi statistici. Come quello di utilizzare l’anno 1991, il punto più basso dell’economia della Germania dell’Est, come anno di partenza per i calcoli dei diversi indicatori economici: in questo modo – è stato osservato – “anche un livello che si trova al di sotto della situazione della RDT del 1989 sembra un miglioramento” (U. Busch). Ancora il 30 settembre ha fatto uso di questo trucchetto il capo-economista del KfW, Jörg Zeuner, per argomentare la sua surreale affermazione secondo cui “oggi possiamo parlare del secondo miracolo economico tedesco”.
Ma per quanto si giochi coi numeri e con le parole è difficile nascondere una realtà di sostanziale stagnazione, e comunque il mancato raggiungimento degli standard economici dell’Ovest. Alcuni economisti stimano che il processo di convergenza durerà almeno altri 30 anni, altri 100. Intanto gli obiettivi fissati dal governo si fanno più modesti: l’adeguamento delle condizioni di vita da conseguire non è ormai più riferito alla media dei Länder dell’Ovest, ma a quelli in ritardo di sviluppo (“strukturschwach”); e nel computo dei Länder dell’Est viene inclusa l’intera città di Berlino per alzare la media.
La verità l’ha detta Joachim Ragnitz, dell’Ifo-Institut di Dresda, il 4 maggio scorso, in una sede insospettabile come il quotidiano “Welt am Sonntag”: “L’Est non riuscirà in tempi prevedibili ad agganciare l’Ovest”. In tedesco la formulazione per “mancare l’aggancio” è “den Anschluss nicht schaffen”. Ma “Anschluss” è anche il termine che indica l’“annessione”. Il mancato “Anschluss” economico è il prezzo pagato dai cittadini dell’Est per il rapido “Anschluss” politico della RDT alla RFT.